Giacomo Manzù Le emozioni della forma
Le emozioni della forma
Spunti critici sulle opere di Giacomo Manzù
Massimo Guastella
Il primo impulso per fare una scultura,
la prima emozione è quella naturale....
La nostra legge è la forma...
Che cos’è la forma? ...
La forma è la nostra legge,
il nostro linguaggio.
La forma è ciò che gli uomini hanno dentro.
Questi misteri interiori dell’uomo!
Giacomo Manzù
Ideare una mostra su Giacomo Manzù ha una du- plice finalità, tornare a godere delle opere di un prestigioso artista della storia scultoria “italica”del secolo XX, del quale una selezionata produzione è sta- ta esposta nel Palazzo dell’Annunziata di Matera nel 2000, e procedere nel solco della consolidata accoglienza della scultura di cui è storicamente sede la città lucana. Aspetto tutt’altro che semplice quest’ultimo, in una città che nei decenni ha potuto apprezzare le più rilevanti testimonianze delle maggiori personalità della scultura nazionale e internazionale, in una successione di mostre allocate negli affascinanti e singolari ambienti dei Sassi. Appunto per questo, la scelta di ordinare una esposizione del maestro lombardo doveva coniugare un adeguato assortimento di opere da ordinare in uno spazio che avesse un suo, proprio carattere di unicità oltre che di notevole suggestione, qual è la chiesa del Purgatorio, che s’incastona magistralmente come tappa obbligata del percorso turistico culturale materano. Una cornice densa di storia dell’architettura e dell’arte figurativa e dei manufatti d’arredo della cultura artistica meridionale di età moderna, che ben si è prestata ad ospitare la sequenza di statue e statuette di Manzù, che da par loro si sono ambientate, offrendosi a una fruizione imprevista e stimolante.
Nel contrasto (detesto i millantatori di dialoghi epocali impossibili e crossover infondati) tra il luogo storicamente connotato e le sculture, ap-
partenenti a una laica religiosità del secolo scorso, si individua la ragione di configurare una galleria retrospettiva di personaggi e oggetti d’idioma figurativo che s’impastasse all’arte religiosa settecentesca nel contesto ecclesiale, dislocandovi testimonianze arcane e ieratiche, immobili e impenetrabili originate da un tempo che appare sospeso. Neppure la scelta del contenitore potrebbe ritenersi un azzardo: «Manzù, cresciuto in una famiglia religiosissima», ha ricorda- to Mario De Micheli, e per via del padre sacrestano «fin dai più teneri anni aveva vissuto tra l’iconografia sacra e i riti chiesastici».
Giova ripetere quanto Giacomo Manzù sia da annoverare tra i protagonisti della vicenda culturale e artistica italiana del Ventesimo secolo, «senza dubbio un momento di rara eccezionalità nell’arte» del Novecento come affermava convintamente lo stesso De Micheli. Pur «senza maestri e dopo aver fatto diversi mestieri», e sopra tutti l’artigiano, si chiarisce il naturale sviluppo della sua arte plastica nella complessità della sua formazione, sin dai suoi esordi, non inquadrabili omettendo gli evidenti riferimenti di partenza, la tradizione plastica dell’Ottocento francese dei due soggiorni parigini e Medardo Rosso, le esperienze segnate da un arcaico primitivismo neo-romanico, l’ascendente classicista ma ancor più marcata la seduzione dell’arte etrusca, e non di poco conto le tensioni morali e intimamente spirituali di un pittore credente come Tullio Garbari non ancora ben compreso negli studi storico-artistici e, come giustamente spiegava Corrado Maltese agli inizi degli anni Sessanta, quel diffuso sentore di neo religiosismo.
Le sculture esposte, accresciute sul lievito del passato nel costante fermento dell’attualità e nella «necessità di creare un mondo plastico nuovo in una nuova unità di spirito», coprono un arco temporale che ricade nella produzione della maturità, dal rilievo metallico dei Rami d’Ulivo del 1940, passando per la familiare Carrozza di Giulia e Mileto (1967) e giungendo al 1989, anno di esecuzione del Cardinale seduto.
Una mostra di ampio respiro cronologico, composta di dodici sculture in bronzo che attestano la sua eccellente capacità di maneggiare la materia da portare in fusione; a cui si aggiungono due icone marmoree nel bianco di Carrara, a riprova dell’accortezza e versatilità nel dedicarsi ai pezzi unici delle esperienze scultoree; non ultimo il rilievo su rame che ho citato sopra. Un novero di opere plastiche che trova origine ideativa nei decenni precedenti alle date di realizzazione; prova ne sia che sono presenti soggetti tra i suoi preferiti e ricorrenti e perciò tra i più conosciuti della sua produzione, dalle danzatrici ai cardinali, dagli striptease ai figlioli in carrozza, temi costantemente declinati di volta in volta in variate versioni, come egli era solito fare, senza eccedere in manierismi. Innanzi al pubblico dei visitatori, i pezzi esposti potrebbero presentarsi come nell’appropriata definizione data da Dario Micacchi: «figure dell’esistenza più quotidiana, stanno nel nostro tempo con una astanza e una fragranza straordinarie, a volte sembra che dal bronzo esca un alito».
Le creazioni di Manzù sono tra i più alti e rappresen- tativi esiti dell’arte del XX secolo, d’un artefice che ha saputo trasfondere la classicità nella modernità,avvicinandosi ai maestri del passato pur senza imitarli. Si è inteso far emergere la sua attitudine plastica non isolata per sé stessa ma colta nell’attualità del linguaggio adoperato; un dato che si scorge nella contrapposizione tra materia e spirito e denota le soluzioni formali che trovano slancio direttamente da emozioni intime, anche le più fragili, proprie della natura umana. Per queste ragioni la mostra si orienta su un motivo caratterizzante l’opera di Manzù: quel “riuscire a dare forma alle sue emozioni”, come ben conoscendolo suggeriva Inge, dal 1954 compagna e musa ispiratrice di tanti suoi lavori, in buona sostanza il leitmotiv, che sin dal titolo, orienta questa essenziale antologica.
Aquesta premessa, in un giro di riferimenti critici tra le tante e autorevoli firme della storia e della critica d’arte che hanno scritto e in vari modi dell’opera di Giacomo Manzù, segue il tentativo di ricostruire una cronologia delle sculture esposte, a prescindere dall’ordine degli allestimenti, e parallelamente raggruppare e concisamente descrivere cicli, temi e versioni.
La datazione più alta tra le opere allestite è quella dell’altorilievo dei Rami d’ulivo, credibilmente del 1940 circa. Una composizione su rame impaginata in un formato trapezoidale, non molto appariscente rispetto ai lavori tridimensionali, e pur di dimensioni ragguardevoli. Si avverte il raggiungimento di quella piena maturità stilistica, verso gli anni Quaranta, che si estrinseca in un linguaggio che si sa rendere simbolico, in cui recupera nel medium, un impianto compositivo che sa di tradizione quattrocentesca degli altorilievi più noti della storia dell’arte. Il motivo anticipa e rinvia a quegli elementi vegetomorfi proposti verso gli anni Cinquanta e Sessanta nei simboli eucaristici per le porte bronzee di San Pietro e della cattedrale di Salisburgo. E tuttavia l’analogo soggetto a rilievo si ritrova a Fuipiano al Brembo (paese natale della madre Maria Angela Pesenti), che si apprezza sulla fontana della piazza centrale. Nello sbalzo, la tenue incidenza luministica dà risalto grafico agli elementi rappresentati e suggerisce una modulazione natu- ralista sostanzialmente epidermica o sia fruibile tattilmente, e non solo visivamente, del rametto con foglie e olive.
Al mondo infantile e alla celebrazione degli affetti familiari si rivolge il bronzetto Carrozza Giulia e Mileto (1967). Il soggetto iconografico avviato l’anno precedente è dedicato fiabescamente ai propri figli, nati dall’unione con Inge Schabel. Giovanni Carandente farebbe derivare l’invenzione delle «raffigurazioni gioiose dei figli in carrozza», dalla visione dai Carri esposti nel 1962 dall’artista americano Davidi Smith nel Teatro romano di Spoleto, in occasione delle Sculture in città, a cui partecipò lo stesso Manzù col Cardinale, ora a Washington (Hirshhorn Museum). Considerato che lo scultore già s’era dedicato agli studi dell’arte atavica e segnatamente etrusca, la suggestione è credibile e si abbinerebbe con le carrozzine con cui si trasportavano i bimbetti a passeggio, «i miei figli Giulia e Mileto che vivono con me».
I cardinali, tra i pezzi più noti al pubblico, ma soprattutto tra i soggetti meglio riusciti e dagli esiti più nobili nell’itinerario artistico di Manzù, rinviano a quella particolare figura d’alto prelato che innovativa nella sua produzione e per la prima volta fusa nel bronzo nel 1936. La serie di grandi e piccole statue, dalle essenziali forme piramidali e pur tuttavia scevre da implicazioni contenutistiche, impegnò l’artista per gran parte della sua carriera ne inventò una cinquantina fino all’ultimo modello del 1960, da quando, come riportano le memorie auto biografiche, nel ’34, notò al Vaticano due presuli avvolti nei paludamenti che sedevano ai lati del papa. «La prima volta che vidi i cardinali fu in San Pietro nel 1934», ricordava l’artista, «mi impressionarono per le loro masse rigide, immobili, eppure vibranti di spiritualità compressa. Li vedevo come tante statue, una serie di cubi allineati, e l’impulso a creare nella scultura una mia versione di quella realtà ineffabile, fu irresistibile» In mostra è suggerita idealmente quella sua prima visione, ponendo verso l’altare maggiore due cardinali di medie dimensioni, uno in bronzo fuso nel 1970 e l’altro scolpito nel marmo del 1985 e, accanto sta quello centrale, un pezzo bronzeo (1989), grande al vero, quasi a riprendere quel nesso tra sacralità e contemporaneità, tra la fede cristiana e la sua arte plastica, pur se quella rappresentazione non fosse in rapporto, per sua stessa ammissione, con la religione o la Chiesa. A completare l’esposizione altri due cardinalini: un’altra variante marmorea (1976) e un bronzetto, edi- zione del 1980, dove si conferma «l’evidenza aristocratica», ha detto Luigi Carluccio, «come doppiata da un turbamento che discende dall’arcano della loro ieraticità».
La tipica suggestione visiva che creano le gemelle, che in questa mostra campeggiano come due stranianti giovinette, dall’aspetto latamente androgino, al centro della navata unica, è originata e reinventata dal tema della Pattinatrice del 1956, che «ha le fattezze di Sonia, sorella di Inge», che qui si sdoppia fronteggiandosi. Legata al tema femminile, Double-Face (1970), com’è titolata, presenta le due adolescenti, con le mani sui fianchi, coperte da grevi vestiti, chiusi sul davanti da una filza di bottoni in alto e con abbondante panneggio a pieghe nel gonnellino, proposte specularmente, che incrociano, lo sguardo fisso l’un l’altra, volgendo specularmente il capo, dalla pettinatura a coda. Diversamente dalle consuete intonazioni di melanconiche teste, di buona parte della sua produzione, queste due silhouette schematizzate e irrigidite nelle linee descrittive, inespressive nei volti appaiono suscitano effetti psicologici a chi le osserva. La coppia di bronzi allineata potrebbe suggerire l’equilibrio delle forme, forse l’equilibrio delle relazioni nella «vita stessa» che «è un sistema precario di piccoli equilibri, di contraddizioni».
La coppia di spogliarelliste si spiega nel bisogno di dare forma alla bellezza del corpo femminile attraverso temi di invenzioni sensuose e latamente erotiche, ripetutamente ripresi. Le due sculturette, rispettivamente eseguite nel 1972 e nel 1981 appartengono al ciclo dello Strip-tease, ideato dalla metà degli anni Sessanta, in cui l’artista dava vita a personaggi, dalla sensualità solo in apparenza castigata, che restituiva, «un senso vitalistico dell’eros». Questi lavori plastici lasciano emergere il notevole interesse che ebbe nel lavoro di Manzù il modellare gli ampi panneggi e «le pieghe che mi perseguitano», sia formalmente che espressivamente. Nell’abilità plastica, le figure frementi delle due figure muliebri, d’una appena dissimulata pulsione erotica, sono simboli di estetica classica concepite con un gusto moderno che travalica ogni accademismo.
La donna è, come nella miglior tradizione della scultura figurativa, tra i soggetti più significativi trattati da Manzù. Ne è esempio Passo di danza fusione del 1975), un nudino appartenente al tema delle danzatrici, che affrontò abitualmente dalla prima metà del Novecento, con un crescendo di variazioni per le quali spesso mise in posa la moglie Inge. Si osserva la figuretta con le caviglie sollevate dalla base e “in punta” con le braccia portate dietro; la posizione assunta dalla modella non è propriamente codificata della danza classica accademica, in cui generalmente gli arti inferiori lavorano sempre in en dehors (rotazione verso l’esterno), come rileverebbe l’insegnante di danza. La giovane ballerina ha i capelli raccolti indietro e una folta e lunghissima coda, che trattiene tra le mani, le scende a serpentina sulla schiena e ancor più giù; per postura e caratteri è prossima a un analogo soggetto del 1956. Sui passi di danza, che, come si è detto, inaugurò tra il 1938 e il 1941 e fu una fortunata serie in parecchie occasioni reiterata in molteplici variazioni come gli era consueto fare, credo valga la pena riprendere dall’appropriato testo di Mario De Micheli che osservava:
Il più ricco e il più vario dei discorsi plastici moderni sulla bellezza e sull’entusiasmo liberatorio dell’amore. Vagheggiamento ideale, affiorante sensualità, empito amoroso, acuto senso di nostalgia per qualcosa che rimane sempre irraggiungibile e segreto e che pur anima la sostanza medesima della nostra esistenza: ecco ciò che alimenta questi nudi femminili, seduti o in piedi, dove la bellezza è contemplata ora nel corpo di un’adolescente, prossimo allo sboccio ma non ancora sbocciato, con un volto soffuso d’enigmatica tenerezza come nella modella qui in mostra ora nell’espansione di un corpo trionfante, colmo, vitale, su cui si legge ombra di peccato, né reticenza o ambiguità, ma elogio disteso e terrestre.
La Sedia con natura morta (1977), trova origine nell’utensile studiato e proposto nei disegni e nelle sculture sin dagli anni Trenta e compare associato a elementi diversi, dalle foglie ai frutti, dai rami ad oggetti vari, verso gli anni Sessanta (precisamente nel 1960: Galleria Welz di Salisburgo). Esprime un remoto rimando all’infanzia: «la sedia», diceva, «unica eredità che ricevei da mio padre» sacrestano di convento, come si è anzidetto. Nella riconoscibilità imitativa di dati reali, propri del genere della natura morta, si può ravvisare un marcato rimando alla tradizione naturalistica d’ambito lombardo; nondimeno va menzionato, a tal proposito, l’omaggio esplicito che volle dedicare al conterraneo Caravaggio con la frutta della “fiscella dell’Ambrosiana”, fusa nel 1985. La seggiola di Manzù con «un po’ di ortaggi buttati su», per Gombrich, si distanziava dalla tradizione artigianale, dall’arte applicata, per divenire un’opera d’arte interessante e e motivo di curiosità, oltrepassando le antiche rappresentazioni della natura morta decorative e ornamentali per trovare una singolare affinità emotiva con le sedie vangoghiane. Così l’artista:« Certamente la mia sedia ricorda quella di Van Gogh, ma a me ricorda soprattutto i mestieri fatti da giovane». Pertanto, su questo tema, nelle sue tante varianti, ascoltiamo le parole di Luigi Carluccio: «È forse l’esempio» della «totale presenza dell’uomo, presenza che per un altro verso significa “impegno”, dell’artista e conferisce nobiltà anche alle cose più umili».
Nel Busto di giapponese, l’artista elude ogni occorrenza realistica, con i lineamenti del volto appena accennati. Il busto evidenzia una pienezza
formale, che si rifà alle fattezze antropomorfiche dei canòpi etruschi cito dall’autore : “chiusini”, rivelandoci quella cifra che rientra nel giro dei riferimenti all’arte antica nostrana e non di meno alla sua enigmaticità sepolta nel remoto, da cui Manzù seppe trarre appigli ispiratori. La robusta sintesi plastica dell’esemplare, datato al 1980, ribadisce l’elevato livello raggiunto nel tipo, nel corso dell’iter creativo. Orientato ai valori della scultura tradizionale, preservandoli e al contempo sfrondandoli d’ogni retorica, l’artista lombardo risultava investire in una scelta linguistica connotata dalla rigenerazione costante della ricerca plastica.
Oltre che guarnite con nature morte, alle sedie si abbinano bambine sedute oppure la modella Tebe in posa. Sedia con nudo o Tebe seduta, del 1983,
discende dal grande bronzo Fanciulla sulla sedia (1947), suo ennesimo capolavoro da cui deriva il significativo corpus tematico a cui si appartiene questa rinomata opera. Lo scultore studia il rapporto tra la sedia, elemento di quotidianità e protagonista di altre sue opere, e il nudo femminile; oserei dire come Marino Marini studiò quello tra cavaliere e cavallo. Differentemente dalla tendenza alla sintesi e materica della rigida struttura dell’artista pistoiese, Manzù nel discorso plastico trova ancora una occasione per imprigionare con le forme morbide, stemperare con l’espressione, scandire con la flessuosa postura lo smanioso marasma dello stato d’animo della fanciulla di (quell’) oggi, sensuale e allettante nella sua tangibile carnalità. Dal bronzo scaturisce un’emozione intima, privata piuttosto che una concezione precostituita, per quanto l’artista abbondasse negli schizzi preparatori, amante del disegno qual era. Quei capelli mossi con frangia, l’adagiarsi discosta al sedile, a sottolineare le sporte natiche, e l’accavallare delle cosce forzano la seduzione, l’appeal che sprizza dalla giovanile freschezza corporea di «quella stupefacente modella che è Tebe». La fisicità della modella e ancor più accentuata dalla luce costruttiva e vibrante che le scivola lungo il corpo per concludersi scendendo per l’esile braccio destro nella mano.
Più e più notazioni espressive di questo nucleo di opere esposte nella chiesa del Purgatorio, caratteristiche del suo repertorio, «rivelano», come
è stato giustamente detto da Guido Ballo, e qui chiudo con gli spunti critici presi a prestito tra numerose dichiarazioni, «uno scultore ancora teso con fantasia a costruire dall’interno immagini concluse nel ritmo e vibranti di calda trattenuta emozione poetica: che è la vita stessa, in questo caso, della scultura di Manzù».