Romagnano al Monte Il paese fantasma
Questo borgo di origine romana sorge su uno sperone roccioso a strapiombo sul fiume Platano, a 650 metri di altitudine. Il paesino segna il confine tra Campania e Basilicata, tanto che si tende a identificarlo erroneamente come lucano. Noto in origine come "fundus Romanianus", il nome indicava presumibilmente l'appartenenza a una famiglia patrizia detta "Romanius". L'epiteto si è poi italianizzato nell'odierno "Romagnano" al quale fu poi aggiunto "al monte" per evitare di confonderlo con l'omonimo Sesia in provincia di Novara. Intorno all'anno 1000 sorse un piccolo castello che funse da catalizzatore per il nucleo abitato, mentre il primo documento scritto che menziona il borgo risale al 1167. Prima che il sisma del 1980 spingesse gli abitanti all'abbandono definitivo, il paese venne tartassato da pestilenze, carestie, brigantaggio e terremoti.
Romagnano al Monte è una città fantasma dalla desolante malinconia. Il tempo è rimasto cristallizzato al 23 novembre 1980, data del devastante terremoto che si abbatté come una scure impietosa sul Sud Italia. All'ingresso del paese si trovano palazzi dall'architettura moderna, costruiti negli anni Settanta, che stridono con le abitazioni antiche del borgo. La cosa contribuisce ad accentuare l'effetto di straniamento, amplificando l'eco dell'inquietudine. Diversi edifici sono crollati o pericolanti, ma è comunque possibile trovare fievoli tracce della vita di un tempo: cucine arredate con sedie e tavoli, vecchi ritagli di giornale, lattine arrugginite. Impressionante e a dir poco commovente la visita nella Chiesa della Madonna del Rosario, risalente al XVII secolo. L'edificio colpisce per la sua bellezza magnetica che contrasta con la desolazione circostante, fatta di calcinacci e travi crollate.
Al di là del patrimonio edilizio, già fatiscente a causa dei terremoti del 1930 e 1962, un altro elemento che aggravò gli effetti della scossa fu il ritardo dei soccorsi. I motivi furono molteplici: la difficoltà di accesso dei mezzi di soccorso nelle zone dell'entroterra, dovuta all'isolamento geografico delle aree colpite e al crollo di ponti e strade di accesso, il cattivo stato della maggior parte delle infrastrutture (tra cui quelle per l'energia elettrica e le radiotrasmissioni, il cui danneggiamento rese quasi impossibile le comunicazioni a distanza) e l'assenza di un'organizzazione di protezione civile che consentisse azioni di soccorso in maniera tempestiva e coordinata. Il primo a far presente questa grave mancanza fu il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il 25 novembre, nonostante il parere contrario del presidente del Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri,[14] Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia, dove lo aspettava l'allora Ministro degli affari esteri, il potentino Emilio Colombo.
Di ritorno dall'Irpinia, in un discorso in televisione rivolto agli italiani[15], l'allora Capo dello Stato denunciò con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi, che sarebbero arrivati in tutte le zone colpite solo dopo cinque giorni.[16] Le dure parole del presidente della Repubblica causarono l'immediata rimozione del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo, e le dimissioni (in seguito respinte) del Ministro dell'interno Virginio Rognoni.[17] Il discorso del Capo dello Stato ebbe come ulteriore effetto di mobilitare un gran numero di volontari che furono di grande aiuto in particolare durante la prima settimana dal sisma. L'opera dei volontari fu in seguito pubblicamente riconosciuta anche con una cerimonia a loro dedicata in Campidoglio, a Roma.